…per scoprire Iarin Munari.
E’ considerato uno dei migliori batteristi italiani. Appassionato di musica già dalla tenera età, inizia a suonare la batteria a 16 anni.
Una passione, quella per la musica, che cresce e si alimenta con costante entusiasmo ed emozione.
Sei musicista, polistrumentista, compositore, arrangiatore, produttore ed insegnante.
C’è un aneddoto che ti piace ricordare riguardo al tuo inizio di carriera?
Ce ne sono tanti che abbracciano una sfera di tempo piuttosto ampia.
Dai primi attimi in cui mio padre, appassionato di batteria, mi avvicinava alla percussione facendomi giocare su pentole e bacinelle. Alle intere domeniche da adolescente trascorse facendo festa in casa di un amico, suonando e cantando Battisti e i Led Zeppelin. Alle notti in spiaggia con falò e chitarra.
Poi i primi concerti. I primi sogni. I primi viaggi. I primi sacrifici. Le centinaia di ore di studio. Le prime soddisfazioni. Le prime delusioni.
Fino ai grandi palchi, ai dischi, agli artisti che ho sempre stimato e per cui mi ritrovavo a suonare. A quei secondi nel back stage prima dei grandi concerti, quelli in cui aspetti di salire sul palco.
I momenti divertenti con i colleghi musicisti durante le tante tournée.
Insomma sono davvero molte le immagini e gli aneddoti che conservo nel cuore, ma vorrei riassumerli in un’unica parola che fa da denominatore comune.
Entusiasmo.
Quello che genera curiosità e ti fa scoprire ogni giorno una cosa nuova. Ti connette con gli altri e soprattutto con te stesso. Che ti regala la forza nei momenti complicati. Che genera cultura e gioia di vivere. Che genera i sogni. E che so che mi accompagnerà per sempre.
Non potrò mai smettere di ringraziare chi mi ha permesso di avere questa fortuna. La mia famiglia e tutti i miei maestri.
In ‘I’M’ spazi nelle più ampie sonorità dove tu sei davvero e il vero protagonista in quanto vesti anche i ruoli di polistrumentista, compositore e arrangiatore. Dal Funk/Jazz all’Afro/Etno/Pop.
Per il tuo debutto da solista hai lavorato ad un disco molto intenso, studiato minuziosamente nei particolari e che ti rappresenta in ogni sfumatura. Anche nella scelta del titolo perchè ‘I’M’ sono le tue iniziali.
E’ una giusta deduzione?
Perché questa scelta, o esigenza, di un inciso così tanto intenso?
Il titolo gioca proprio sull’equazione esistente tra le mie iniziali e la traduzione dall’inglese “Io sono”.
Perché questo lavoro discografico mi racconta un po’ in tutte le mie “vesti”. Quella di performer batterista, ma anche quella di compositore, di arrangiatore, di produttore, di chitarrista.
Ho tanto ancora da vivere, da imparare e da sbagliare, ma questa è una fotografia precisa di me che raccoglie momenti e pensieri intimi fino ad oggi. Esperienze vissute tradotte in suoni. Che nascono da emozioni e che spero fortemente ritornino ad esserlo in chi ascolta questi brani.
‘I’M’ è un album che simboleggia in qualche modo il ciclo vitale: ‘SUNRISE’ e ‘SUNSET’ sono i brani di apertura e chiusura del CD. Tra Alba e Tramonto c’è tutta una vita.
Come nasce la struttura di questo lavoro?
Nella musica spesso succedono cose strane. Inspiegabili.
Perché è davvero inspiegabile il processo che ti porta alla scrittura di un brano.
E’ un momento.
Arriva un’ idea. Hai lo strumento vicino. Lo imbracci e si materializza. Qualche volta in pochi istanti, altre volte invece in qualche giorno.
Si apre un canale tra te e il subconscio. Tra te e qualcosa che va oltre.
Poi ti ritrovi una serie di brani che spesso hai scritto in momenti diversi della tua vita e ti accorgi che tra di loro hanno un senso ben preciso.
Con “I’ M” è successo proprio questo.
Ad un certo punto ho realizzato di avere nel cassetto composizioni che arrivavano da periodi distanti tra loro, che avevano sonorità molto differenti, ma allo stesso tempo rappresentavano questa fotografia molto precisa del mio vissuto emotivo e musicale.
“Sunrise” e “Sunset” ad esempio erano destinati ad un film che però si bloccò ad uno showreel e non venne mai più realizzato.
Quelle idee con la tipica sonorità da film, che erano la mia rappresentazione dell’ alba e del tramonto, rimasero perciò lì in un cassetto per diversi anni.
Fino a che non mi accorsi che erano il collante perfetto per il “concept” del mio disco.
‘SETTIMO’ ha una curiosità che ti è piaciuta particolarmente in fase di registrazione in studio. Ci racconti l’aneddoto che ha ulteriormente impreziosito il brano?
Settimo ha diverse curiosità. Te le voglio raccontare così le rivivo un po’.
E’ un brano che ho scritto molti anni fa, almeno 20.
Vivevo coi miei genitori ed avevo circa 20 anni per cui andavo alla ricerca di energia sia nella musica che ascoltavo, che in quella che scrivevo. Led Zeppelin e Deep Purple sempre “a tavoletta” nel mio stereo, assieme al funk dei Tower Of Power o James Brown .
Quel giorno ero sul divano all’ora di pranzo con la chitarra in mano quando mi “arrivò” il ritornello di Settimo. Mio padre rientrando dal lavoro, varcando la porta d’ingresso di fretta, mi passò davanti sentendo questo ritornello diverso dal solito. Più melodico. Sorpreso mi disse fuggente in dialetto ferrarese: “Sa tiè rumantic!”. Che tradotto significa “Come sei romantico”.
Ci facemmo una bella risata.
Quel brano rimase lì per anni.
Nel 2005 venne presentato alle selezioni di Sanremo in una forma più pop dai 2Black, band famosa per il brano “Waves of luv “. Aveva un mio arrangiamento, un testo in italiano di Enrico Nascimbeni ed una strofa cambiata, composta da me e Davide Candini. Il ritornello era lo stesso.
Non passò la selezione e rimase di nuovo lì fermo.
Nel 2012 uscì nel disco della mia band “Free Jam” in una forma pop simile a quella dei 2Black, ma con il testo in inglese scritto questa volta da Davide Candini.
Un testo a cui tengo molto perché racconta le ultime parole tra me e mio padre prima della sua dipartita. Le confidai a Davide e lui le tradusse con una grande poetica. Ogni volta che lo leggo mi emoziono tantissimo.
Nacque così “That Light”.
In questo mio ultimo lavoro, “I’ M”, ho deciso di incidere di nuovo questa canzone ma nella sua forma originaria. Strumentale, con la strofa nativa ed una forma canzone tipica del jazz-funk. Ricca di improvvisazioni e ritmo, con l’aggiunta di una sezione fiati ma sempre con quel ritornello melodico che tanto piaceva al mio “vecchio”.
Ogni brano del tuo album è una sorta di esigenza naturale di espressione. La terza traccia contiene un testo in linguaggio Nigeriano Igbò e con la partecipazione del percussionista Fabrizio Luca. Il titolo ‘AFRITA’ è l’unione di Africa e Italia. Ai cori la tua voce. ‘Stiamo cercando la nostra strada in questa vita terrena’.
Come nasce ‘AFRITA’? Cosa ti lega all’Africa?
Afrìta è un termine che ho inventato. Appunto l’unione delle parole Africa e Italia.
E’ un mio piccolo omaggio al continente da cui è partito tutto ed al quale in fondo siamo tutti connessi. A cui dobbiamo molto. E che negli ultimi secoli ha subito molte violenze.
E’ stata un’ esigenza musicale che poi però mi ha suggerito molte altre riflessioni.
Per esempio ho provato a mettermi nei panni di coloro che rischiano la vita per attraversare il mediterraneo. Per questo ho inserito i pochi versi cantati nella loro lingua: l’ Igbò. E’ uno dei linguaggi tradizionali Nigeriani e la traduzione è stata fatta da Anthony Obi, uno degli ambulanti africani che regolarmente viene a suonare al mio campanello da anni e con cui ho parlato a lungo. Ovviamente l’ho inserito nei crediti del disco.
Curiosità: ho scoperto che l’ Igbò e l’Italiano hanno in comune la fonetica. Si legge proprio come si scrive, esattamente come la nostra lingua.
Più ci si conosce e più si scopre che non siamo così diversi.
I brani del tuo album raccontano di momenti di vita travolgenti, altri felici e altri ancora colmi di pensieri di speranza. Riesci a catturare l’attenzione con un garbo quasi magico. A metà del tuo disco troviamo ‘TWILIGHT’ che abbraccia tutti gli altri brani per restare in salda armonia continuativa con il primo e l’ultimo brano. Alba e Tramonto, a volte, sembrano la stessa cosa.
Cosa differenzia ‘SUNRISE’ da ‘SUNSET’?
Hai colto esattamente il concept del disco.
Sunrise e Sunset sono lo stesso tema arrangiato in modo diverso per rappresentare appunto l’ alba e il tramonto.
Questo tema ricorre anche in un altro brano suonato in versione latin jazz, “Twilight”. Il crepuscolo. Quel momento in cui l’ alba e il tramonto sono la stessa cosa. La rappresentazione della meravigliosa circolarità della vita che porta ogni fine a sfumare naturalmente verso un nuovo inizio.
Ci sono tre brani dove ti separi dalla batteria per suonare chitarre acustiche, classiche, ukulele, pianoforte e per arrangiare un quartetto d’archi formato da Andrea Scaramella (violino), Francesco De Santi (violino), Laura Giaretta (viola), Maurizio Galvanelli (violoncello).
Perché hai scelto una composizione più armonica per ‘SUNRISE’ e ‘SUNSET’?
E’ stata una scelta naturale, dettata dall’esigenza di rappresentare questi due momenti (alba e tramonto) nel modo più dolce e garbato possibile. Nulla tocca alcune mie emozioni come gli strumenti ad arco.
‘CHASING BUTTERFLIES’ rincorre con ritmo la leggerezza. Tu da solo in 1 minuto e 15 secondi di danza. Cosa rappresenta per te questo brano?
Questo brano è la mia rappresentazione della spensieratezza di un bimbo che rincorre le farfalle in un campo fiorito. E’ un promemoria che uso per assaporarmi gli istanti. Per ricordarmi della bellezza che abbiamo attorno. Di quel vivere il momento godendo della semplicità che la vita ci offre e che purtroppo con l’età perdiamo sempre più di vista.
Un promemoria per ritornare bambino? Si. Decisamente.
‘CAMILLA’ e ‘TOWARDS THAT LIGHT’ toccano le corde del cuore. Credo che una riverenza sia spesso necessaria per noi stessi, per mantenere vivo un ricordo e forse anche un’esigenza di un continuo e inscindibile legame.
Sembra che le note parlino da sole, accompagnandoti con leggerezza nei passi di una danza. E poi come d’incanto il Sax.
Com’è stato farsi trasportare nell’atmosfera di questi due brani durante la lo scrittura?
Hanno qualcosa in comune?
Si, sono entrambi una dedica d’amore. Non hanno un testo, ma sono quanto di più vicino all’amore io possa esprimere senza parole.
“Towards That Light” è dedicata a mio padre.
E’ stata pubblicata per la prima volta nel 2012, anch’essa nel disco “What about the funky?” del mio progetto Free Jam. E’ la traccia prima di “That Light” e nasce come un tema classico per quintetto d’archi e pianoforte della durata di un minuto e dieci secondi. Il tema è un riassunto di tutto ciò che si prova quando si sta vicino ad una persona che ami e se ne sta andando. Disperazione, speranza, forza, lotta e rassegnazione, ma finisce con una sensazione di serenità. Quella che mio padre mi chiese di provare a mantenere. Perché lui era sereno e voleva che lo fossi anch’io. “Tutto ha un senso”, mi disse, “Anche ciò che non capiamo”.
In questo disco, “I’ M”, ho voluto riproporla in versione ballad jazz. Con una formazione acustica tradizionale: batteria, basso, pianoforte, chitarra e sax.
Chiesi ad Alfonso Santimone di suonare un intro di piano dopo avergli raccontato il senso di questo tema. Lui abbassò il capo e improvvisò quello che sentite nel disco. Ricordo che mentre suonava nella sala adiacente alla mia batteria divisi da un vetro (per evitare i rientri microfonici) fui travolto da brividi e commozione.
Camilla invece era il mio cane.
Il tema ha un carattere dolce, quasi fanciullesco, ed il suono generale del brano vuole essere una carezza d’ amore ad una creatura nata nel fienile accanto ad una sala prove in cui suonavo e che mi ha accompagnato per 18 anni. Per me una figlia.
Allo stesso modo dell’ altra ballad, chiesi a Daniele Santimone di suonare un intro di chitarra prima del tema. Lui scelse la chitarra classica ed improvvisò con l’ incredibile pathos che potete sentire nella traccia del disco.
‘FIFTH WAVE’ mi riporta alla mente il film diretto da J. Blakeson (romanzo di Rick Yancey). La stessa cosa mi succede con ‘TWILIGHT’ con riferimento al film diretto da C. Hardwicke (romanzo di Stephenie Meyer). Ciò che accomuna entrambi potrebbe essere la visone della fine come un nuovo inizio. C’è qualche riferimento in merito?
Assolutamente si.
Fifth Wave è il brano più sperimentale del disco dal punto di vista musicale. Ha una struttura ritmica piuttosto complessa. Parlando in termini tecnici, è in 5/4 e la prima parte del tema suona molto “spigolosa”, mentre nella seconda parte lo stesso 5/4 si ammorbidisce sia ritmicamente che melodicamente.
E’ la rappresentazione della vita attraverso un viaggio in mare. Ti trovi inevitabilmente in momenti tremendamente complicati.
Quelle onde appuntite, nemiche, dispari, che urtano la nave, la spostano, la feriscono e ti portano alla deriva.
Ti sembra di non farcela.Ma poi ne esci.
Il temporale finisce e le acque si calmano. Trovi una rotta nuova che ti riporta al sereno.
Trovo molto importante riservare uno spazio agli addetti ai lavori che ci sono al fianco di un artista. Non dico appositamente ‘dietro’ perché hanno un valore elevato nel gioco di squadra.
Vorresti citare chi collabora con te, dedicando loro una piccola presentazione?
“I’ M” è un progetto che porta il mio nome ma è il risultato di una squadra straordinaria fatta di colleghi di grande talento che ha lavorato con passione e che ringrazio con tutto il cuore. Sono tra i migliori musicisti che io conosca ed hanno tutti alle spalle una storia ed una carriera straordinaria. Hanno dentro lo spirito vero dell’ arte. Ricerca, rispetto, emotività, condivisione. E’ una vera fortuna poter fare musica con loro.
Alfonso Santimone: pianoforte
Nick Muneratti: basso
Daniele Santimone: chitarra
Piero Bittolo Bon: sax baritono, tenore, contralto
Enrico Di Stefano: sax contralto
Antonello Del Sordo: tromba
Fabrizio Luca: percussioni
Ci tengo a citare anche un’ altra artista che stimo molto, non presente nel disco, ma che è diventata un membro stabile della formazione live, la cantante ferrarese Annalisa Vassalli.
Hanno suonato anche:
Andrea Scaramella e Francesco De Santi: violino
Laura Giarretta: viola
Maurizio Galvanelli: cello
Allo stesso modo la parte tecnica della registrazione, della ricerca del suono e della finalizzazione del mastering è stata curata da grandi professionisti che hanno lavorato con altrettanta passione e competenza. Grazie quindi a:
Nicola Fantozzi, Angelo Paracchini e Raul Girotti dell’ Over Studio di Cento (Fe).
Mike 3rd del Prosdocimi Studio Recordings di Carmignano di Brenta (Pd).
Luca Leprotti, Nico Dalla Vecchia e Marco Biscarini del Modulab Recording Studio di Casalecchio di Reno (Bo).
L’ idea grafica e le foto di copertina sono opera di Emanuel Guarniero. Ha trovato una chiave incredibilmente semplice ed elegante che mi ha colpito molto fin dalle prime bozze. Grazie Emanuel.
Grazie a Jacopo Aneghini per le foto interne del booklet e ad Alex Terazzan per aver realizzato il mio sito web in contemporanea all’uscita del disco.
Durante il tuo percorso musicale (vedi anche le collaborazioni in tournée, dischi, TV e radio) ti sei cimentato in diversi generi.
Quali di questi è più vicino a come percepisci tu la musica?
Difficile risponderti perché le mie esperienze musicali mi hanno portato a suonare ed apprezzare davvero tante forme di musica e di cultura.
Ho iniziato a suonare ascoltando hard rock, ma i miei studi musicali si diressero all’ inizio verso il jazz.
Mi sono trovato poi a collaborare con artisti pop.
Ho lavorato e sono tornato a lavorare con gruppi ska. A breve cominceranno i primi concerti con la storica band ferrarese Strike, pionieri dell’ underground italiano che stanno uscendo con un nuovo disco.
Ho attraversato le diverse fasi che mediamente vive un musicista: la ricerca della tecnica, la voglia di urlare dei 20 anni, la scoperta della bellezza di una nota o di una parola attorno ai 30.
Oggi mi trovo a mio agio quando suono qualcosa che abbia un significato profondo. Che abbia dei contenuti. Che permetta di andare alla ricerca dei suoni giusti per dire quella determinata cosa.
Forse la mia espressione musicale preferita come batterista si trova a cavallo tra il pop e la musica afroamericana.
Non mi trovo a mio agio invece in mezzo alla volgarità, alla presunzione ed all’ arroganza. Nemmeno quando sono quasi “giuste”.
Poco dopo i 20 anni ricevi una telefonata importante. A farla è il grande Gilberto ‘Gibo’ Martellieri. Lui ti ha dato, ed è proprio il caso di dirlo, il ‘LA’ per un percorso di collaborazione con grandi artisti di altissimo livello del panorama della musica italiana.
Cosa ti affascina di questa altra veste del tuo lavoro?
C’è qualcosa che vuoi dire sulla magnificenza professionale di Gilberto Martellieri?
Gilberto è stato una persona molto importante per me.
Era un musicista straordinario. Un pianista dalla sensibilità rara che ha collaborato con i più grandi cantautori italiani.
Grazie a lui feci le mie prime esperienze professionali nel pop. I primi tour di Franco Fasano e Gigliola Cinquetti. Poi Roberto Vecchioni e Paolo Vallesi.
Tv, radio, incisioni. Mi ha insegnato tanto.
Aveva un carattere scontroso e spesso mi portò anche a livelli di stress alti.
Ad un certo punto, dopo dieci anni di collaborazioni, litigammo e ci allontanammo.
Una sera a qualche anno di distanza sentii il telefono squillare. Vidi il suo nome. Non risposi. Ero ancora risentito.
Quando venni a sapere, un paio d’anni fa, che era in ospedale in uno stato terminale provai subito a contattarlo ma la sua famiglia mi disse che stava molto male e preferiva non incontrare nessuno se non i parenti molto stretti.
Non riuscii a salutarlo. A dirgli grazie. E questa cosa mi pesa.
Ogni tanto ascolto l’ultimo disco che abbiamo registrato assieme o le vecchie registrazioni dei concerti dei primi anni 2000. Sorrido e mi commuovo.
La Musica è un linguaggio. E poi c’è il linguaggio della musica. A volte anche un sistema codificato per molti, ma non per tutti. Non arriva con la stessa efficacia. Altre volte ancora invece è lì, da ascoltare e basta, senza dover necessariamente cercare di carpirne l”oltre’ che spesso siamo portati a voler individuare. Impossibile discutere sulla tua intenzione e passione che ne caratterizzano un notevole stile identificativo.
Cosa ricerca Iarin Munari nella sua musica?
Cosa vorresti che arrivasse del tuo ‘idioma’ musicale?
Emozioni.
Tutto quello che studiamo sullo strumento, ore ed ore per perfezionarsi, la continua insoddisfazione perché senti che ancora qualcosa non va.
Tutto ciò diventa assolutamente inutile se non riesci a trasmettere qualcosa.
Il tamburo ad esempio è lo strumento più antico che ci sia. Secondo solo alla voce.
E’ una pelle appoggiata su un fusto di legno che viene messa in vibrazione da un battente che hai in mano tu. Che hai in mano tu.
E quando alcuni musicisti suonano succede qualcosa. Quella cosa che non è necessario aver studiato musica per sentirla.
Quella vibrazione che si porta dietro delle informazioni. Delle emozioni.
Succede in ogni strumento ed è la magia segreta di alcuni musicisti o di alcuni ensemble.
Cerco quello.
Cerco e spero di fare in modo che, quando finisco di suonare, mi si avvicini qualcuno che mi dica: “non so niente di musica ma mi sono emozionato ascoltandoti”.
Iarin Munari è anche un produttore.
Quali requisiti cerchi in un artista che vuole realizzare con te un album?
Deve innanzitutto piacermi a pelle. Deve avere dei contenuti. Ma devo anche riconoscermi nella sua scrittura e devo sentire che il mio contributo possa essere in linea con la sua idea di suono finale.
Classe 1975. Sei di quell’epoca generazionale a metà tra il ‘vecchio stile'(vinile, audiocassette) e il digitale (CD e ‘liquido’).
In quale momento storico-musicale ti senti più inserito, o semplicemente più a tuo agio?
Sono sicuramente più a mio agio nel vecchio stile. Ma non per partito preso.
Adoro la tecnologia e la uso quotidianamente per comporre, arrangiare e promuovermi. Cerco quindi di sfruttarne tutti i benefici ma non posso non notarne anche i collaterali.
L’ avvento dello streaming ha generato la gratuità della musica. E la gratuità ha tolto valore all’ arte.
I giovani mediamente non ritengono più necessario pagare per fruire di musica. O meglio pagano una connessione internet e una società di streaming.
Pochi sanno che artisti, autori e musicisti sono molto penalizzati da questa nuova direzione del business musicale.
Il bello di comprare un cd o un vinile era che avevi il tempo di scoprirli in profondità, di impararli a memoria. Oggi hai accesso alla discografia intera di tutti gli artisti. Non ti serve nemmeno un armadio in cui conservarla. Non è più tua.
La disponibilità infinita che offre il web ha anche esaurito la curiosità. Quella che ti portava ad andare più spesso ai concerti. Ora è tutto lì sul tuo divano, nel tuo telefono, nel tuo computer.
Io continuerò ad andare alla ricerca della bellezza dell’ arte. Della incredibile unicità di una nota suonata e di una parola cantata. Possibilmente a pochi metri dal palco.
Col tuo permesso vorrei dedicare una domanda ad Ellade Bandini, ‘Il Batterista’ per eccellenza.
Una persona a dir poco meravigliosa ed un professionista che è a tutti gli effetti un ‘pilastro’ della musica italiana.
Vorresti raccontarci qualcosa sul vostro rapporto professionale e di amicizia?
Ho avuto diversi maestri, tutti grandi musicisti a cui devo molto.
Lele Barbieri, il primo, quello che mi ha iniziato ai tamburi, straordinario jazzista ferrarese.
Marco Volpe, grande conoscitore della tradizione, con un’ incredibile sensibilità alla didattica e alle esigenze specifiche di ogni suo allievo. Nunzio Di Corato, grande percussionista classico con cui ho studiato al conservatorio di Rovigo.
Ed Ellade Bandini.
Con lui non ho mai fatto una lezione vera e propria. E non ha mai voluto denaro da me.
Venne a parlarmi alla fine di un mio concerto in piazza a Ferrara. Si avvicinò allungando la mano e dicendo: ”Ciao, sono Ellade Bandini…”. Avevo 19 anni e quando lo riconobbi rimasi pietrificato.
Quel giorno parlammo un po’ sotto il palco e m’ invitò a suonare assieme a lui nello studio in cui si esercitava a casa di Andrea Polidori, altro straordinario batterista ferrarese.
Cominciai ad andare in quello studio in cui ogni tanto suonavamo assieme mentre altre volte lo ascoltavo durante la preparazione dei brani dei tour di De Andrè, Vecchioni, Branduardi, Oxa etc.
Io ero molto giovane e stargli vicino significava respirare la sua aria ed assimilare linguaggi profondi del cantautorato italiano.
In seguito ci siamo persi di vista per un po’.
Negli ultimi anni siamo tornati a sentirci molto spesso e siamo diventati buoni amici. Capita sovente di trascorrere del tempo assieme e siamo in continuo confronto su molte tematiche.
Ellade ha scritto la storia della cultura italiana e non solo. E’ nelle case della gente da 50 anni con i dischi in cui ha suonato.
Oggi oltre che una persona a cui voglio bene è un prezioso amico. Il primo consigliere delle mie attività musicali e continua ad essere un punto di riferimento ed un maestro importante per me.
Per come la vedo io dovrebbe essere un Senatore della Repubblica. Uno di quelli che potrebbe consigliare quale direzione dare alla cultura di questo paese.
Ringraziandoti vorrei chiudere con il pensiero di una canzone: ‘Non so io ma tu quanti sogni avrai ancora…’
Io ringrazio te.
Per aver citato questa canzone a cui io tengo molto e per esserti interessata con questa passione ai miei sogni.
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