Dado Tedeschi comincia la sua professione negli anni ottanta. Da Zelig alla Corte dei Miracoli, dal Derbino alla Taverna dei Sette Peccati, calcando poi quasi tutti i palcoscenici italiani.
Sei autore di molti comici affermati e anche insegnante e scrittore.
Come ricordi il tuo esordio?
Nel 1990 precisamente, qualcosina ho fatto anche negli anni ’80, ma era assolutamente ininfluente.
Ricordo grandissima emozione e grandissima voglia di fare quello che poi ho fatto nella vita.
Ero anche estremamente timido, ma ho imparato a non esserlo più sul palco, io facevo quello che dovevo fare arrossendo, diventando viola, ai limiti di colorazioni mai raggiunte in natura.
Però lo facevo.
…cosa facevi prima di fare il comico?
Ho sempre fatto il comico, più o meno.
Terminata la scuola ho fatto finta di andare in ufficio da mio padre, che era commercialista, ma per poco tempo e con nullo impegno, sostanzialmente.
Quando hai iniziato a ridere?
A ridere… devo ancora cominciare veramente.
Questo è un lavoro che in qualche modo ti inaridisce sul versante della risata. Alla fine dai per scontato un po’ tutto.
Io ridevo molto-molto all’inizio, ma ridevo davvero con tutto.
I primi film di Boldi e De Sica mi divertivano veramente, non li trovavo squallidi, poi il gusto si raffina e non ti piace più niente, spesso non ti piacciono neanche le cose belle, sei analitico, non sei divertito.
…si diventa più esigenti?
Si diventa molto più esigenti, ma soprattutto si riconoscono i meccanismi e quando hai riconosciuto il meccanismo, la cosa non ti fa più ridere. Perdi la sorpresa.
Come nasce un comico? Comici si nasce?
No… Si… Boh!
Io ci sono nato, ma ci sono nato con la passione.
Il comico nasce perché hai voglia di dire qualcosa con un punto di vista diverso e trovi le strade e i modi per dirlo. Poi ci si raffina, ma sostanzialmente è questo.
Si nasce anche per reazione alla timidezza.
Io non credo a quelli che dicono: “Io ero quello che al bar faceva ridere tutta la compagnia!”
No, quelli non sono i comici.
I comici sono quelli che se ne stanno in disparte nella compagnia, ma osservano tutto quello che succede.
Come e perché hai deciso di fare cabaret?
Per amore del cabaret.
E’ sempre stata la mia passione.
Io, quando da piccolo vedevo Walter Chiari, poi prendevo i pomelli delle tende e ci parlavo dentro.
E’ quello che ho sempre voluto fare ed è quello che sono arrivato a fare. Anzi, forse ora è più difficile, perché adesso le cose sono un po’ cambiate, il mercato va in un altro modo. Ho dovuto inventarmi altri sette lavori e quindi, magari, faccio meno cabaret rispetto a una volta, però, diciamo, cerco sempre di farlo.
…altri sette lavori, come le ‘sette meraviglie del mondo’ e i ‘sette peccati capitali’…
…certo, perché il sette funziona davvero molto!
Ti piace definirti uno ‘stand up comedian’ ovvero ‘un comico in piedi’.
In che senso?
Perché lo ‘stand up comedian’ è una forma di comico molto americana e molto poco italiana.
L’italiano va sulla maschera, sul personaggio, sul vestirsi in un certo modo o su un dialetto. La cosa affascinante invece, secondo me, è lavorare all’americana: ‘COMICO-MICROFONO-PUBBLICO’.
Io sono io, a te dico delle cose normali, al pubblico le stesse cose, però con le battute, con il filtro della comicità e il pubblico ride per quello che sono io, non per la costruzione artefatta che vede.
…quindi c’è molta più spontaneità che costruzione …
Si, esatto.
Beh! Il testo è costruito.
Quasi tutto quello che scrivo, o sono cose che ho vissuto, o sono variazioni di questo.
C’è comunque il vissuto dentro.
I tuoi argomenti spaziano dal cinema alla televisione e dalla politica alla religione, accavallandosi con racconti sulla tua famiglia e sull’amore.
Di cosa piace parlare, su un palco, a Dado Tedeschi?
Mi piace la provocazione, però se tu parli di politica e religione è provocazione in qualche modo, e siamo abituati a vederla.
A me piace la provocazione vera.
Ho letto una cosa molto bella di Boris Vian: “Non è sconcio fare l’amore, è sconcio guardarsi negli occhi”.
Quindi la provocazione vera è essere veri.
Mi piace quando riesco a raccontare le cose vere della mia vita, quando riesco a raccontare l’amore, il sesso, i disagi di queste due cose.
Quando riesco a raccontare il mio disagio di vivere.
Che poi il mio disagio di vivere è ventitré ore al giorno, tranne quell’ora che sono sul palco, magari.
Troppo tragico?
Nei tuoi spettacoli evidenzi anche quanto sia importante amarsi, dove collochi questo sentimento in racconti di quotidianità.
Sei un sentimentale? Dado, che cos’è l’amore?
L’amore è l’assoluto, la fusione totale con l’altra persona.
Si racconta tanto l’amore perché si fa fatica a viverlo.
Io esco da una storia da poco, quindi è il momento giusto per questa domanda…
Però è questo: è la continua ricerca del senso della vita, quello che alla fine siamo noi.
Se amo l’amore? Si, sono assolutamente romantico.
Ti cito Eleonora Giorgi, in ‘Sapore di mare 2′, che diceva: “Mi innamoro tutte le volte, darei la mia vita per innamorarmi almeno una volta”.
Molto spesso confondiamo l’amore con l’essere trasportati da un’infatuazione.
Io sono perennemente trasportato dall’infatuazione che ogni tanto provo a vivere l’amore.
Mi piace raccontare questo.
Qualcuno ti ha definito un ‘logorroico del cabaret’.
Sei d’accordo?
Ma, principalmente mi ci sono definito io come istruzioni per l’uso del mio spettacolo.
Però è assolutamente vero.
Io straparlo, la fortuna è che, quando lo faccio sul palco, è comico.
Però mi piacciono i ritmi, essere veloce, mi piace passare da un concetto all’altro, le parentesi, le virgolette, mi piace il ‘bla bla bla’ da seguire.
Io ho cominciato come discjockey, ed una delle cose che impari quando fai il discjockey è non lasciare silenzio, riempire le parole con altre parole, le pause con le parole.
E anche se dici cose che sembra non abbiano senso, non fermarti mai.
Qual è la cosa più bella del ridere? Qual è la risata che ricordi con più gusto?
Le cose che mi han fatto più ridere non le ho mai viste sul palco.
Essenzialmente.
La scena più divertente che ho vissuto nella mia vita è quando un mio amico, che aveva quintalate di musica sul computer, ha beccato un virus e il tecnico che è andato a sistemarglielo gli ha tolto tutta la musica dicendo: “Ma è illegale!”
E’ stata una delle poche volte che io ho rischiato la pipì addosso dal ridere di gusto, proprio nel paradosso della cosa.
E’ stata una risata proprio… totale!
In questo tempo di crisi si fa fatica a trovare un microfono e un palcoscenico?
Si fa fatica a farsi pagare per un microfono e un palcoscenico.
Molti ti dicono: “Vieni e fai!” Ma non c’è più il concetto che è un lavoro, e quindi non viene riconosciuto come tale.
Il sogno nel cassetto di Dado Tedeschi?
A 46 anni, a questo punto, ti dico essere felice.
Felice e di essere pacificato che le cose che ho fatto nella vita, e che sto facendo, siano le cose giuste da fare.
Ho un attimo smesso le ambizioni… un po’ perché viene prima la sopravvivenza, per cui preferisco vederla così.
Il sogno nel cassetto?
Forse che alla fine ci sia un piccolo interruttore e che la gente si accorga di quello che sto facendo.
Il sogno vero, il sogno ideale, siccome non amo la televisione proprio come concetto, è riuscire a diventare famoso senza fare un minuto di televisione.
Ma io vivo nell’utopia, in mille modi, quindi…
I tuoi progetti futuri?
Cercare di continuare a fare questo lavoro.
Veramente sta diventando un’impresa, ma ci credo, e quindi lo faccio.
La cosa a cui tieni particolarmente?
I miei figli, loro sono il significato e sono davvero l’amore.
Non è che l’amore sia solo il rapporto con una donna, anche, ma è molto più facile amare loro che una donna.
Come amare un uomo per una donna, credo.
L’ultima domanda la lascio a te: cosa ti chiederesti?
Due cose mi chiederei.
Una se riuscirò ad essere veramente pacificato col mio lavoro senza avere il rimpianto di non essere arrivato a determinati risultati.
Forse la domanda che mi faccio un po’ tutti i giorni è: “Perché l’80% dei miei amici e dei miei allievi, persone che hanno imparato delle cose da me, sono riusciti a diventare famosi, o comunque conosciuti e fare un percorso televisivo, ed io non ci sono riuscito?”
Me lo sto chiedendo perché sicuramente c’è una componente di colpa mia, e sicuramente c’è una componente che forse non lo volevo fare.
In realtà lo volevo per i risultati che ci sono, ma non lo volevo per quello che comportava stare dentro la cosa.
Mi chiedo dove e a che punto ho sbagliato nella strada.
Quindi le mie domande sono queste: “Dove ho sbagliato la strada prima? Quando riuscirò ad essere pacificato dopo?”