Pietro Ubaldi: il tuo nome lo ricordo da quando leggevo i titoli di coda alla fine dei primi cartoni animati che guardavo da piccola.
Mi ha sempre incuriosito molto dare un volto alla tua voce.
Mistero svelato, dopo trent’anni. Vado un po’ in tilt cercando di trovare un nesso tra Taz (Taz-Mania), Giuliano e Marrabbio (Kiss me Licia)… Ti cerco in un silenzioso Spike (La Valle Incantata) e ti trovo in un ingegnoso Doraemon. Chi è PIETRO UBALDI?
E’ uno che ama divertirsi e giocare, da sempre.
Se un uomo riesce a rimanere un po’ bambino in quel senso, pur prendendosi tutte le responsabilità necessarie, che vuol dire anche impegnarsi nel lavoro, si gioca, ma si lavora.
E poi c’è sempre da imparare, in ogni caso, anche in senso letterale all’inglese o alla francese… to play o jouer, che vuol dire giocare e recitare insieme.
Cosa ti ha portato al doppiaggio?
Il caso. Ho scoperto di avere un minimo di talento, che non vuol dire ‘Sono il più bravo’ o ‘Bene, bravo, 7+’. Se scopri, fortunatamente, di avere un’attitudine, è bello fare un lavoro che ti piace o per il quale ti senti portato.
Ho cominciato per caso, io avrei dovuto fare tutt’altro. Mio nonno aveva creato un’officina meccanica; sono stato il primo nipote maschio, e lui voleva che diventassi un grande ingegnere, che lo aiutassi nella fabbrica. Mio nonno costruiva motori marini.
Non ti racconto tutti i retroscena, ma uno dei motivi per cui non mi sono messo a fare quel lavoro è perché quando andavamo a fare i collaudi, stavo male. Lui usava una colonia pesantissima e mi veniva la nausea già durante il tragitto in macchina.
A parte questo, terminato lo scientifico, e dopo due anni di ingegneria, sono passato a filosofia. Nel frattempo, al liceo avevo iniziato a fare teatro amatoriale, passando poi a quello professionale, e rimandando così gli studi.
A Milano, in quegli anni, il lavoro del doppiatore era accessorio al lavoro dell’attore. C’era poca gente e tanto lavoro in più, perché si faceva televisione 24 ore al giorno. Le televisioni private avevano tanto da fare. Io ho scoperto di avere l’attitudine al gioco e soprattutto la caratterizzazione. Mi sono buttato, perché me l’hanno chiesto, sui cartoni animati che ho scoperto essere il mio mondo, e dura da 32/33 anni.
Come fai a modificare la tua voce?
Non ci penso. Se consideri, da un punto all’alto, gli ostacoli che ci sono in mezzo, non lo fai. Ti butti, giochi e scopri. In genere il lavoro del doppiatore è interpretare sempre, per cui, in qualche modo, anche l’aspetto vocale è importante. Nell’ambito televisivo c’è meno lavoro di introspezione, ma il lavoro della caratterizzazione, dell trovare la voce giusta, spesso e volentieri, quando si tratta di canzoni e di cartoni in lingue conosciute, comprendi cosa dicono e con la musicalità della lingua cerchi di rispettare la voce originale. Trattandosi, in molti casi, di cartoni giapponesi, la voce è più inventata che altro.
Da Patric Star (Spongebob) a Doraemon, fino ad arrivare anche al reality (Top Gear).
Cosa cambia?
Recitare sembra finzione, in realtà è il massimo della verità.
A me piacciono tutte le cose che faccio nel mio ambito, anche perché uno deve lavorare e campare, non è che si può fare sempre quello che piace o quello che piace di più, si fa quello che capita. Mi piace tutto per la verità dal cartone giapponese che molti giudicano, al reality.
Quando ero bambino io, di cartoni giapponesi ce n’erano molto di meno, che erano Hanna Barbera, Warner, Disney, eccetera. Poi mi sono dovuto abituare alle tematiche giapponesi, che sono un po’ folli, però, proprio per questo, anche divertenti.
Cambia che interpreti ogni cosa in maniera diversa.
Certo, se hai la serie lunga lunga, fai lo stesso personaggio per tanto tempo, se no ne fai tanti e diversi. Siccome di lavoro non ce n’è moltissimo, è meglio la serie lunga lunga che si ripete, piuttosto che non avere niente.
Io non faccio la voce fuori campo, il documentarista, la ‘voice over’ piatta piatta, tutto atono. Io partecipo, per cui nel reality, appunto come Top Gear, la trasmissione della BBC sulle macchine di un certo tipo, il protagonista scherza e gioca molto. Ed io con lui.
Sogni i tuoi personaggi?
No, non mi ricordo mai i sogni che faccio.
Diciamo che spero di sognare, e spero di sognare sia dormendo che ad occhi aperti.
Ti capita di svegliarti la mattina pensando di essere uno dei tuoi personaggi, e poi scoprirti Pietro Ubaldi guardandoti allo specchio?
Io sono i miei personaggi!
Tant’è vero che un bel po’ di anni fa, pur non avendo più fatto l’attore per tanto tempo, la produttrice di Canale 5, che ringrazierò sempre, mi ha messo a condurre una trasmissione in diretta. ‘Game Boat’ è andata in onda per due anni, su Rete 4. Ero vestito da capitano di marina. La trasmissione è incominciata con me, poi l’anno successivo, l’ho condivisa con Cristina D’Avena.
La produttrice mi ha messo a fare il conduttore perché, secondo lei, io ero un cartone animato vivente.
Diciamo che la mia vita è un po’ un cartone animato.
Il personaggio che ti ha colpito di più, o che porti nel cuore? Perché?
Non è che porto nel cuore un personaggio in particolare, il mio lavoro mi piace tutto. Ovviamente ricordo soprattutto i personaggi che ho doppiato più a lungo, quelli che mi hanno dato maggiore soddisfazione, o personale, o perché magari hanno avuto un riscontro maggiore. In realtà mi piacciono tutti.
Il personaggio che proprio non sopporti?
No, non ce n’è.
Chi avresti voluto, o vorresti doppiare?
Eh! Da attore vorrei doppiare tutto.
Spesso e volentieri, nel caso dei cartoni soprattutto, doppio tutto quello che c’è. Per cui ho doppiato anche donne e bambini.
Mi piacere doppiare tutto.
Lo scherzo più grande, o più stupido, che hai fatto sfruttando la tua voce, con i tuoi personaggi?
No, scherzi no. Le prese in giro non mi piacciono se scherziamo assieme e giochiamo insieme, allora si, ma prendere in giro qualcun altro, no.
Io gioco sempre, quotidianamente. Faccio battute, perché mi vengono spontanee.
Non prendo in giro nessuno, perché non voglio che qualcuno stia male perché io lo prendo in giro.
L’ultima domanda la lascio a te: che cosa ti chiederesti?
Sai che io non penso mai a quello che faccio?
Un pochino ci penso, ma è un pochino! Noi siamo stati abituati, nel doppiaggio, alla fretta, e dalla fretta, qua a Milano, facciamo un prodotto televisivo che ritengo di qualità. E’ un lavoro in cui serve comunque cultura impegno, formazione, talento e tante cose.
Però mi piace andare all’improvviso, all’impronta, mi piace essere spontaneo. Certo che interpreto, però sai che c’è la recitazione all’ ‘Actors Studio’, in cui tu ti immedesimi in qualsiasi cosa che fai, oppure c’è quella epica ‘Brechtiana’, controllata, dove c’è interpretazione e ragionamento insieme.
In generale, più che pensare, vorrei essere quello… “Come sono? Cosa sono e cosa vorrei che gli altri pensassero di me? Come vorrei essere?”
Io, non è che vorrei essere qualcos’altro, io sono già tante cose diverse spero che me ne capitino tante altre, ma non ho desiderio o domande.
Ho avuto anche dei periodi bui, di depressione vera e propria, vorrei avere sempre anima, sentimento e ragione insieme; per cui cercare, un pochino di pensare, ma poi di vivere, semplicemente.